DIDATTICA: Il presente come storia

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La controriforma dei cicli come antipedagogia

Si vuol rendere la scuola pubblica un’azienda senza scuola, ispirata ad una logica monodirezionale, il mercato e suoi bisogni e non i bisogni del soggetto in età evolutiva

 

“Nessuna riforma dell’educazione può decollare senza la partecipazione attiva e onesta degli insegnanti, disponibili e pronti ad aiutare e condividere, a offrire conforto e supporto”
Jerome Bruner, 1997


La cosiddetta riforma dei cicli scolastici (cosiddetta perché potrebbe configurarsi come vera e propria controriforma), dovrebbe essere varata, secondo le dichiarazioni del Ministro della P.I. De Mauro, dal 1 settembre 2001. Una data ravvicinata dunque: eppure i docenti, che ancora al momento e per fortuna, sono il cuore pulsante e attivo dell’istituzione scolastica pubblica (in quanto a quella privata, ci sembra che il cuore ne sia il profitto, e non quello scolastico), non sanno ancora a chi insegneranno (solo agli allievi della prima o anche della seconda?), né dove (in quali plessi) né cosa, mancando ancora i curricoli ed i programmi e né con quale orario e inquadramento.
E allora, una prima notazione di metodo: quando una riforma viene varata, sin dal suo concepimento, essa deve veder coinvolti in prima persona proprio gli attori protagonisti che debbono farla camminare; altrimenti, anche una buona riforma, rimarrebbe carta straccia, burocratica e largamente inapplicata. Questa poi, sembra non una buona riforma, ma una controriforma, con un sostanziale salto all’indietro in una modalità rivestita da presunta innovazione pedagogica. E proprio quest’ultimo punto, a me sembra particolarmente critico: c’è una sorta di difficoltà, quasi una soggezione psicologica, a parlar male di ciò che dovrebbe essere considerato ‘il nuovo che avanza’, le nuove frontiere dell’educazione, le tecnologie didattiche al servizio di un apprendimento più ricco, rapido e multiforme. Ma appena si tenta di connettere la modalità concreta con cui questa ‘riforma dei cicli’ avverrà, e le elaborazioni pedagogiche che dovrebbero supportarla, si scopre non una multiformità, ma una monodirezionalità: un apprendimento forse sì più rapido, e non sappiamo quanto giusto dal punto di vista formativo, ma di certo meno ricco e, soprattutto, unidirezionale.
I due punti dirimenti, infatti, di quella modalità, sono:
1. la cancellazione di un anno di scuola di base, che passa da 8 a 7 anni;
2. la precoce scelta, che si abbassa ai 12 anni, del proprio destino scolastico, con un punto di fuga verso l’apprendistato, una sorta di genuflessione al mercato selvaggio del lavoro che ha bisogno, come si sa, di manualità flessibile e, soprattutto, molto giovane. Infatti,  i ragazzi che decideranno di non continuare la scuola dopo i 15 anni potranno adempiere a questo "obbligo" anche al di fuori della scuola, andando a lavorare gratuitamente o con contratti diversi da quelli nazionali, attraverso l'apprendistato, con forme di sottopagamento e sfruttamento che potrebbero essere, e il più delle volte lo sono, illegali. Con la scusa della formazione, si concede alle industrie della manodopera a costi ridotti, mettendo i ragazzi in concorrenza con i lavoratori adulti, per sfruttarli e liquidarli al termine dell'"obbligo".
Come sia possibile collegare tutto questo, e in particolare i due punti summenzionati, con un apprendimento più ricco, articolato e multiforme, che dia priorità alla maturazione di linguaggi formali-astratti di base nell’età puberale e preadolescenziale, come recitano le teorizzazioni pedagogiche a supporto della ‘riforma’, rimane un mistero. O, meglio, non lo è; ma, comunque, sforziamoci di rimanere in quest’ottica: forse confidando ancora una volta nell’abilità dei nostri docenti, maestri-docenti e professori-maestri (chissà, forse anche la parola maestro rischia di scomparire come reperto antico a favore magari di modernissimi neologismi ultranuovisti, ad es.: operatori della mente, guide di abilità ecc..); i quali però, pur bravi (e in tutti questi anni lo sono stati per davvero), non possono proprio forzare le tappe dell’età evolutiva. Perché se questo si configurasse, e si configura nell’impianto concreto della ‘riforma’, non di pedagogia si tratterebbe, ma di anti-pedagogia. Anti-pedagogia, che è anche un termine utilizzato da un maestro della didattica in Italia quale Francesco De Bartolomeis, ma in tutt’altro significato da quello che qui ho voluto evidenziare. Non preoccupazione per la trasmissione di valori culturali e sociali dominanti senza pluralismo critico, a cui contrapporre, appunto, un’anti-pedagogia.
[Cfr. Francesco De Bartolomeis: La ricerca come antipedagogia, Feltrinelli, 1969]
Esattamente il contrario: qui si vuol rendere la scuola pubblica un’azienda senza scuola, ispirata ad una logica monodirezionale, il mercato e suoi bisogni e non i bisogni del soggetto in età evolutiva, il profitto economico come volàno dello sviluppo, ma non dello sviluppo intellettivo, cognitivo e pratico degli allievi, ma dello sviluppo delle imprese. Trasformare la scuola pubblica in una fabbrica, ma non di menti critiche e capaci di destrutturare la realtà che ci circonda per decodificarla secondo propria autonomia e creatività, ma di corpi da offrire alla flessibilità e mobilità senza diritti, oppure di tecnici altamente specializzati nella produzione virtuale di merci, prodotti e ricchezza speculativa. E anche qui: la speculazione di cui si parla è ben altra da quella filosofica.

· Equivoco pedagogico: flessibilità dei metodi o delle persone?

Perché essere contrari all'abolizione del gruppo classe e ai "gruppi flessibili", una delle caratteristiche della controriforma?
 Il bambino ha bisogno di riferimenti certi non solo per quello che riguarda il rapporto con gli insegnanti, ma anche con i compagni, con le amicizie che si crea. Gli equilibri che si formano all'interno di una classe sono la base per la sicurezza e la crescita del bambino. Il bambino e il ragazzo delle medie non sono degli adulti che possono scegliere quale corso frequentare, con l'obiettivo cosciente di imparare.
L'apprendimento di un bambino o di un ragazzo delle medie è influenzato da molti fattori, tra i quali il fatto di appartenere a una classe, avere amici con cui costruire relazioni stabili, confrontarsi con gli altri. C'è poi il ruolo dell'insegnante: se non c'è una classe precisa, come fa a controllare questi processi, cioè l'equilibrio psicofisico dell'alunno? Se si abolisce la classe si arriverà ad avere insegnanti che entrano ed escono da un'aula, fanno una lezione e abbandonano i bambini ai loro problemi: chi ha capito, bene, per gli altri fa lo stesso. Quella dei gruppi flessibili è la scuola dei più forti, dei più dotati, dei più ricchi. Per gli altri c'è l'abbandono.
Il concetto di flessibilità ha sempre assunto, nel linguaggio corrente, accezione positiva: ecco perché viene utilizzato dai poteri forti dell’economia; un’appropriazione linguistica positiva per un significato negativo. Una contrapposizione semantico-semiologica, dunque: significante positivo-significato negativo.
La metodologia della didattica ha sempre assunto, almeno da Ralph Tyler in poi, e in Italia proprio dal primissimo De Bartolomeis, [Cfr. R.Tyler: Basic principles of curriculum and Instruction, Chicago, Un.Press, 1949 e F.De Bartolomeis: I metodi nella pedagogia contemporanea , Gianasso, 1958]
la flessibilità dei metodi come caratteristica della pianificazione dell’intervento educativo: ancor prima della centralizzazione del feed-back come sistema autoregolativo della stessa procedura pedagogica e valutazione formativa, la disponibilità al mutamento e l’apertura all’innovazione si incardinavano nella filosofia della ri-centralizzazione dell’allievo, i suoi bisogni e i suoi specifici stili cognitivi, sulla funzionalità coattiva dell’insegnamento. Contro il formalismo, la visione dialettica destrutturante l’alienazione: perché?; perché il pensiero è scissione, rottura, conflittualità, frutto di dialogo e discussione critica , per questo, autentica riflessione conoscitiva. E' un destino di 'sofferenza e dolore', che richiede sforzo costante, impegno, assiduità, metodo, 'dolore della conoscenza', come già rilevava Giordano Bruno, secondo il quale "chi acquista sapere, acquista conoscenza". Dunque produce crisi, ma crisi produttiva, creativa. Il pensare costa fatica, deve rimuovere certezze, sicurezze apparenti, forti sedimentazioni. Deve collocarci in una condizione di ricerca aperta, precaria, problematica, mai garantita da articoli di fede autoritativi: un'educazione che non tiene conto delle condizioni del contesto in cui viene applicata è nulla, per il fatto stesso di essere isolata dalla realtà ed inoltre perché può diventare uno strumento sempre meno utile. Era Paul Freire che affermava che la massima aspirazione dell'educazione "depositaria" (termine che sottintende l'insegnamento nozionistico) è "parlare della realtà come qualcosa di fermo, statico, suddiviso e disciplinato, o addirittura dissertare su argomenti completamente estranei  all'esperienza esistenziale degli educandi".
[Cfr. P.Freire: La pedagogia degli oppressi, Mondadori, 1971, pag.81]
Essa non svela le ragioni che fanno dell'uomo un essere in divenire nel mondo, per cui ne inibisce la creatività, preparandolo ad adattarsi alla realtà di fatto. "La liberazione - scrive ancora Freire - è un parto. Un parto doloroso. L'uomo che nasce da questo parto è un uomo nuovo che diviene tale attraverso il superamento della contraddizione oppressori-oppressi, che è poi l'umanizzazione di tutti".
[Ivi, pag.54]
Naturalmente lo sforzo cognitivo, a cui ogni strategia didattica volta all'autoapprendimento (=autonomia dell'apprendimento/scoperta apprenditiva nella propria struttura) deve riferirsi, è in rapporto con la spinta motivazionale propria di ogni soggetto e che ogni soggetto matura in tempi non preordinati. Quello che si definisce 'disponibilità all'apprendimento', non è un dono, ma il risultato di rinforzi appropriati. Il successo dello sforzo cognitivo, porta alla ripetizione della catena di eventi che ha condotto al risultato positivo. Una strategia didattica finalizzata all'insegnamento individuale e non individualizzato, non risolve le aporie, contraddizioni e lacune presenti nel rapporto tra nuovo materiale da apprendere e propria struttura cognitiva, proprio stile cognitivo.
[Su questi temi vedi anche F.Dubla: Il metodo come creatività e liberazione – Sul rapporto tra strategie didattiche e processi cognitivi, Taranto, 1997]
Ma cosa ha a che vedere questo con la flessibilità delle persone? Non con la flessibilità mentale, si badi, di quella s’è già evidenziata prima l’importanza pedagogica, ma la mobilità selvaggia al servizio delle imprese. Che sfidano la didattica con un paradosso contraddittorio per niente dialettico perché irrisolvibile: l’alta e rapida specializzazione e la riconversione altrettanto rapida alla dequalificazione meccanica. E così, da una parte si richiede al mondo della scuola di preparare al lavoro, naturalmente alle esigenze strettamente contingenti delle aziende, riducendo al minimo o addirittura cassando una forte e dialettica preparazione di base, che, come si sa, comprende anche discipline senza un ritorno immediato in termini di competenze tecniche; dall’altra, senza quella preparazione, anche la mobilità selvaggia, alias la flessibilità senza diritti delle persone, lavoratrici e lavoratori in carne e ossa, diventa impossibile o risulta improduttiva, inefficace.  Insomma,  vorrebbero che i nostri allievi fossero ora asini ora ingeneri, ora api ora architetti, sicuramente integrati, ma nello stesso tempo provvisori, precari. Con grandi capacità cognitive, prima di base poi specialistiche, ma scarsa interpretazione dialettica della realtà.
Ecco perché, una controriforma come questa dei cicli scolastici, ha un impianto così pasticciato: in realtà saranno gli attori protagonisti della pedagogia a sconfiggere questa nuova anti-pedagogia



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