Da Il Manifesto del 10 aprile 2005

 

Sapere critico, nell'era del copia e incolla

 

Nel caos informativo tutto si può copiare, ma «sapere» significa non solo rintracciare la nozione utile, ma anche organizzarla secondo una griglia critica originale. Che richiede cultura. Al «digital divide» se ne aggiunge un altro, derivante dalla distruzione della scuola pubblica

FRANCO CARLINI

 

La professoressa Paola ha assegnato ai suoi studenti una ricerca sul rapporto tra donne e tecnologie; la classe è di un Istituto tecnico per informatici e le ragazze sono molte. Leggendo le relazioni, una frase, scritta da un'allieva, le è suonata particolarmente ben formulata, persino troppo. Per questo la professoressa, colta da un dubbio, l'ha messa tra virgolette e inserita nella maschera di ricerca di Google, scoprendo nel giro di pochi secondi che essa era stata prelevata pari pari da un saggio altrui. Fin qui nulla di nuovo: gli studenti hanno sempre copiato, anche prima dell'internet. Di nuovo c'è che le tecnologie digitali rendono molto più facile sia la copiatura che il suo svelamento. Ma si pone anche un problema interessante, didattico e non tecnico: in che cosa consistono le prove scritte, i compiti a casa e quelli in classe? Già da tempo la nostra professoressa si era convinta che la verifica delle competenze degli studenti non fosse legata alla memorizzazione di formule e teoremi, ma piuttosto alla capacità di usarli per risolvere dei problemi: è quello il vero test che l'informazione sia divenuta sapere. Per questo, da sempre, la docente lascia consultare libri e manuali anche nei saggi in classe, il che significa peraltro preparare delle domande che non siano dei quiz, ma dei contesti in cui utilizzare le conoscenze.

La docente in questione non è l'unica a pensarla così: lo stesso problema si stanno ponendo in America, a proposito dei famosi test di iscrizione ai college (come i Sat, Standardized Admission Test), che si svolgono in questi mesi. Per esempio il gruppo non profit «Educational Testing Service» (www.ets.org) ne ha messo a punto uno completamente nuovo per valutare l'alfabetizzazione digitale: l'idea di fondo consiste nel misurare le capacità dello studente nel trovare, organizzare e valutare criticamente la grande quantità di materiale a sua disposizione. Il test è assai ricco e probabilmente anche molti adulti non sarebbero in grado di affrontarlo adeguatamente dato che richiede sia competenze tecniche che culturali. Per esempio una delle voci prevede di mettere a confronto le informazioni raccolte da diverse pagine web e di creare una tabella elettronica (spreadsheet) di sintesi. Un'altra di selezionare i migliori archivi (database) riguardo a un certo argomento e di valutare se le informazioni contenute sono sufficienti o carenti.

Ha dichiarato in proposito Lorie Roth, rettore vicario del sistema delle università californiane: «Un tempo le informazioni venivano, di fatto, da un unico luogo, la biblioteca universitaria. Ora fanno parte di un continuum gigantesco e spesso lo studente è il solo giudice di quale sia la buona o la cattiva informazione e di tutte le gradazioni intermedie». La frase qui citata proviene da un articolo recente del New York Times (Tom Zeller Jr. «Measuring Literacy in a World Gone Digital», 17 gennaio 2005) e il suo apparire oggi in questa pagina del manifesto è la conferma di quanto stiamo dicendo: le idee sono accessibili e circolano in maniera molto più ampia dal passato e malgrado gli sforzi di coprirle di brevetti e copyright questa tendenza è inarrestabile. La capacità di uno studente (o di un cronista) sta nel trovare quelle riflessioni e nel saperle valutare e quanto al trovarle una buona dimestichezza con i motori di ricerca è sempre più preziosa, ma molto meno diffusa di quanto si creda. Per esempio l'articolo in questione è oggi leggibile a pagamento (per 2,95 dollari) sul sito del New York Times, ma sapendo leggere i risultati di Google si troveranno diversi altri luoghi dove invece esso viene offerto gratuitamente.

In ogni caso la cosa importante è essere insieme modesti e servizievoli verso i propri lettori e dunque, per esempio, sempre citare precisamente la fonte, di modo che essi possano verificare di persona e magari approfondire ulteriormente quanto in una pagina di giornale o in un messaggio di posta elettronica è inevitabilmente sintetico.

La stessa regola vale anche per gli studenti: per tornare alla studentessa dell'esempio iniziale, non si tratta evidentemente di proibirle di consultare libri e rete, ma di insegnarle a citare la sorgente delle idee e delle parole ed eventualmente a spiegare perché ha scelto un certo brano altrui piuttosto che un altro.

Si avverte qui un cambiamento di fondo, che peraltro non riguarda solo la scuola: con un salto enorme rispetto al passato, l'informazione ora è largamente accessibile e abbondante e perciò il problema non è più quello di reperirla, ma semmai di scegliere ed estrarre quella di valore e utile. A ben pensare è lo stesso problema dei giornali: in un mondo in cui chiunque sia dotato di un Pc e di una connessione all'internet può leggere (gratuitamente, a ogni ora e da ogni luogo) l'eccellente Los Angeles Times (http://www.latimes.com), un eventuale corrispondente italiano dalla California non potrà limitarsi a tradurne dignitosamente i pezzi più interessanti, magari rivendendoli come suoi, ma dovrà aggiungere contesto e materiali originali per i suoi lettori potenzialmente già informati.

Succede dunque che il vero fossato digitale (digital divide) non è più soltanto tra chi ha accesso ai computer e alle reti e chi no, ma che, almeno nei paesi più ricchi, il fossato preoccupante è quello culturale (cultural divide). Questo è il problema che nella scuola poco si affronta e che non viene nemmeno sfiorato dalla recente iniziativa del «Comitato dei ministri per la Società dell'informazione». Seguendo una suggestione estemporanea di Tremonti-Moratti, il Comitato ha deciso di stanziare 3 milioni di euro per sperimentare i libri elettronici (e-book) in 150 classi italiane.

La polemica è stata immediata anche perché nei primi comunicati stampa si faceva riferimento ad accordi con Mondadori (casa editrice del presidente del consiglio) e Ibm. In seguito Alessandro Musumeci, consigliere per le politiche di innovazione tecnologica del ministro Letizia Brichetto Moratti, ha corretto il tiro e precisato che «vi sarà una selezione pubblica di fornitori e nessun sarà prioritario. La scelta poi avverrà con criteri trasparenti» (..), ma non è questo che qui importa e preoccupa. Viene infatti spiegato, con una buona dose di ingenuità, che si tratta di un «nuovo e accattivante metodo che parla decisamente giovane» e che «gli zaini si alleggerirebbero». Secondo Punto Informatico «I libri elettronici saranno costituiti da stralci e saggi scelti, arricchiti da link per scoprire le infinite vie della Rete, da ipertesto, immagini, filmati, musica, file audio e possibilmente contenuti televisivi».

Detta così è decisamente banale, oltre che assai discutibile, e quei 3 milioni di euro sembrano un po' buttati, anche perché gli editori più svegli già lo stanno facendo: basti guardare l'iniziativa di Zanichelli chiamata «e-piuma»: sono libri scolastici che pesano meno di 800 grammi: sulla carta offrono i contenuti fondamentali, mentre via computer (http://www.e-piuma.zanichelli.it/) si trovano approfondimenti ed esercizi interattivi. Ma si può andare più in là: infatti, diversamente da quanto pensa Musumeci, i «libri» di cui egli parla già ci sono e coincidono appunto con la rete nel suo complesso. Si tratta di insegnare a usarli, e non di pre-confezionanre e impacchettare i saperi.

Franco Carlini, da «Il Manifesto» del 10 aprile 2005

 


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