behaviorismo:

sm. [sec. XX; dall'amer. behavior, ingl. behaviour, comportamento].
Concezione secondo cui la psicologia deve studiare il comportamento, in
quanto direttamente osservabile e quindi passibile di studio scientifico
valido, e non i processi psichici, la coscienza, ecc., che sono esperienze
individuali e quindi non possono essere oggetto di scienza.

Psicologia: origini e sviluppo del behaviorismo
Il b. nacque negli Stati Uniti negli anni immediatamente precedenti la I
guerra mondiale e il fondatore della nuova scuola viene considerato J. B.
Watson, con il suo manifesto del 1913, Psychology as a Behaviorist
Views It (La psicologia esaminata da un behaviorista). In realtà, già 
prima di questo lavoro di Watson, le concezioni behavioristiche avevano
cominciato a fare la loro comparsa nella psicologia americana,
particolarmente attraverso l'opera di alcuni studiosi di psicologia animale
comparata come E. L. Thorndike e R. M. Yerkes. Quest'ultimo, inoltre,
facendo conoscere agli Americani nel 1909 il lavoro di Pavlov sui riflessi
condizionati, aveva contribuito in modo determinante al volgersi del
pensiero americano in tale prospettiva. Spetta però a Watson il merito di 
aver sintetizzato e reso esplicito quello che era l'orientamento di molti. Il
b. di Watson può essere sintetizzato in pochi punti: lo psicologo deve
prendere in esame il comportamento, e cioè le risposte esplicite che
l'organismo dà a determinati stimoli ambientali. Tutti gli eventi interni
possono essere ignorati senza alcuna perdita per la scienza.
L'introspezione (che, particolarmente nella psicologia europea, era stata
sino ad allora il principale strumento d'indagine) va del tutto
abbandonata, mancando del fondamentale requisito dell'osservabilità e
della controllabilità interpersonale. Per comportamento Watson
intendeva ogni movimento muscolare, o secrezione ghiandolare, o
attività bioelettrica del sistema nervoso, che fosse comunque 
osservabile. La psicologia doveva allora diventare la scienza delle
connessioni tra stimoli ambientali e risposte, connessioni che i primi
behavioristi concepivano soprattutto in termini di riflessi condizionati.
L'influenza dell'opera di Watson fu enorme specialmente negli Stati Uniti
(in Europa l'eco fu minore e vi furono serrate polemiche contro il b.
soprattutto da parte degli psicologi della Gestalt). L'estremo radicalismo
della posizione di Watson non era però accettabile e, dopo questa prima
fase di b. cosiddetto “ingenuo”, negli anni Venti e Trenta le concezioni
behavioristiche ricevettero una nuova sistemazione a opera di altri autori.
Tra questi particolare importanza ebbe B. F. Skinner*, che sottolineò la
necessità di distinguere il comportamento “rispondente” da quello
“operante”: il primo, frutto di riflessi innati o condizionati con un
meccanismo pavloviano ed evocato dagli stimoli appropriati (elicitato)
indipendentemente dalla volontà del soggetto; il secondo, frutto di
condizionamento operante, in cui, a differenza del pavloviano,
l'apprendimento si crea per associazione tra stimolo e risposta, e non tra
due stimoli, “emesso” spontaneamente dall'organismo. Un notevole
apporto teorico fu fornito da C. Hull – che formulò una serie di postulati
la cui dimostrazione deve stare alla base dello studio del comportamento 
– e dai suoi collaboratori della scuola di Yale, in particolare da K. W.
Spence, che pose l'accento sulla necessità di studiare le “variabili
intervenienti” poste tra stimolo e risposta, “nascoste nel sistema nervoso
dell'organismo”, “costrutti ipotetici” che possiamo dedurre dal
comportamento in presenza di determinati stimoli. E ancora, seppure in
una posizione distaccata rispetto agli altri behavioristi, da cui fu spesso 
accusato di “mentalismo”, E. C. Tolman, secondo il quale il 
comportamento è intenzionale (purposive behavior) in quanto
l'organismo (anche quello animale) apprende che un certo complesso di
stimoli (segno) è legato a un altro complesso (significato),
determinandosi così una “mappa cognitiva” di situazioni ricorrenti.
Questa fase, detta del neo-b., pur non essendosi ancora esaurita (vitali 
sono ancora le scuole di Skinner e di Spence) è stata seguita dopo la II
guerra mondiale da una nuova fase, chiamata da D. E. Berlyne*, che ne
è uno dei più validi rappresentanti, del “cenobehaviorismo”. Essa è stata
contrassegnata da una serie di apporti di diversa natura, che hanno
giocato in vario modo da autore ad autore, tanto da render difficile darne
un quadro riassuntivo globale. Questi apporti possono essere comunque
così sintetizzati: la considerazione delle nuove scoperte che venivano
realizzate in campo neurofisiologico, e in particolare quelle sull'attività
del sistema reticolare e sull'arousal*; la “scoperta” delle opere di Jean
Piaget, sino allora, per motivi prevalentemente linguistici, pressoché 
sconosciuto agli studiosi nordamericani, e la conseguente rivalutazione
della considerazione evolutiva nello studio del comportamento; la
conoscenza del lavoro compiuto tra le due guerre dagli studiosi russi,
che, pur senza contatti con il mondo occidentale, si erano mossi in una
direzione sotto certi aspetti analoga a quella dei seguaci del 
behaviorismo. A tali apporti va aggiunta la profonda influenza che hanno
avuto sulla psicologia, soprattutto nordamericana, la cibernetica, la
teoria dell'informazione, la teoria statistica della decisione e, più di
recente, la linguistica, in particolare l'opera di N. Chomsky (pur essendo
il pensiero di questo studioso criticato spesso dai behavioristi per il suo 
innatismo).
Il panorama teorico si è venuto così articolando maggiormente e si è
fatto più complesso e, se la collocazione di alcuni autori in questa
corrente di pensiero è relativamente agevole, per altri, soprattutto per
quelli che hanno reagito al b. di tipo watsoniano e al neo-b. di tipo
hulliano o skinneriano, rivalutando l'importanza dei processi cognitivi, il
problema è più delicato. Così, da un lato vi è l'opera di autori come il
citato Berlyne e lo psicologo canadese D. O. Hebb*, su cui ha avuto
un'influenza predominante la neurofisiologia, vista però non in senso
riduzionistico ma funzionale. Dall'altro vi sono stati contributi di varia
natura; particolarmente significativa a questo proposito l'opera di G. A.
Miller, studioso soprattutto del linguaggio e della teoria
dell'informazione, che in collaborazione con uno psicologo matematico,
E. Galanter, e uno psiconeurologo, K. H. Pribram, ha dato con Plans
and the Structure of Behavior (Metodi e struttura del comportamento)
una delle più importanti opere teoriche della psicologia contemporanea,
in cui nell'ambito dello studio del comportamento si rivalutano i processi
cognitivi e si rifiuta una concezione dell'uomo semplicistica in puri
termini stimolo-risposta. E ancora, significativa nella stessa prospettiva è
l'opera di D. E. Broadbent, che con i suoi studi sull'attenzione ha
dimostrato i limiti che ha l'organismo umano nell'elaborare le
informazioni che gli provengono dall'ambiente.

Psicologia: behaviorismo e cognitivismo
La scuola behaviorista sino agli anni Sessanta aveva esercitato un
dominio pressoché assoluto sulla psicologia sperimentale,
particolarmente statunitense, ma ha perso in seguito la propria centralità;
in generale la maggior parte dei ricercatori aderisce oggi ad altre correnti
di pensiero, prima tra tutte il cognitivismo. La polemica tra questa
impostazione e il b. è particolarmente vivace e verte soprattutto sulla
liceità di studiare i processi “mentali”, negata dai behavioristi, che
ritengono che lo studio dello psicologo debba limitarsi al comportamento 
e che parlare di “mente” sia fare della metafisica e non della scienza. Va
però detto che molti cognitivisti sostengono l'esistenza di una continuità
fra le proprie posizioni e quelle del b. e ritengono che la loro psicologia
sia un rinnovamento del b. stesso. La crisi del b. ha comunque avuto
come effetto una sostanziale modificazione del campo di ricerca della
psicologia. Tipico esempio ne è la profonda modificazione degli studi
sull'apprendimento, che costituivano gran parte della ricerca behaviorista
e che oggi sono affrontati in modo abbastanza diverso con un certo
abbandono delle tematiche del condizionamento. A fianco a questa crisi
si assiste però a un rigoglio di alcune applicazioni derivate dal b., e in
particolare della cosiddetta behavior therapy (terapia del
comportamento). Tale sviluppo si ha anche in Italia, dove opera un
gruppo abbastanza numeroso di psicologi behavioristi (E. Caracciolo, P.
Meazzini, ecc.).
 


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